Onorio Bravi e Nevio Spadoni mettono in scena una Ravenna “spirituale” di rara intensità e armonia. Si avverte il senso di un sentimento del passato, di un tempo eroico che agisce ancora nel
presente, per nuclei invisibili, nella classicità dell’eccellenza. Un’opera a due voci dove ogni elemento interagisce con gli altri in giustapposizione e coesistenza di misura. Insieme Nevio Spadoni e Onorio Bravi, ricreano una città della memoria, entrambi con raffinato “tocco sovrano”.
Questo recente ciclo di opere può essere posto nel solco di una “diaristica”, se così vogliamo definirla. L’artista sapientemente controlla ogni mezzo espressivo: xilografia, graffito, pittura. Un lavoro interamente dedicato alla conservazione di emozioni, sensazioni e reminiscenze. Anche la nostalgia innerva ogni dipinto che si fa luogo gremito di seduzioni, così come le parole poetiche in lingua dialettale raggrumano lo spirito del tempo. Una sorta di perfetto parallelismo per una preservazione emotiva per il tempo futuro. Entrambi hanno ritrovato, nelle loro opere, il sapore dell’intimità e del segreto. Entrambi ripercorrono e rivelano bellezze nascoste. Entrambi richiamano a sé antiche reminiscenze. Un progetto, questo, che sublima l’arte in soddisfazioni differite dello spirito. I colori, ad esempio, godono della irreparabilità della loro stessa bellezza, in una regressione originaria. È il ritorno della memoria di un passato come sublimazione e contemplazione. La figura di Dante, ad esempio, è reliquia, fantasma proiettivo, ombra d’affezione per nuovi viaggi immaginari. La memoria di Onorio Bravi sa di durata e di coscienza, quella che si fa archivio specialissimo. L’artista sembra aver prima misurato attentamente lo spazio della città, palmo a palmo, averla respirata nelle sue vie, agli incroci, agli angoli dei palazzi, nelle sue chiese... Così la pittura, che è sedimentazione materica trasfigurante, perdura e rifluisce in una sorta di prospezione lirica sulla pelle della tela.
Ed è dall’intensità della parola poetica di Nevio Spadoni, intensa di seduzioni, che gemmano le dieci lastre xilografiche dell’artista. Scriveva Aristotele: «Se rimane in noi qualcosa che è simile a un’impronta o a una pittura, come può la percezione di questa impronta essere memoria di qualche altra cosa e non soltanto di sé? Infatti, chi effettivamente ricorda non vede che questa impronta e, solo di essa, ha sensazione: come può ricordare allora ciò che non è presente? [...] Così anche l’immagine mnemonica che è in noi deve essere considerata in oggetto di per se stesso e, nello stesso tempo, rappresentazione di qualche altra cosa».
Opera d’arte e poesia suggeriscono ed alterano una contrapposizione fra spazio e tempo perché entrambe sono forme di “lontananza” e attuano una distanza che «[...] L’anima fa attenzione e ricorda, sicché ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa in ciò che ricorda. Nessuno nega che il futuro non ancora c’è; ma c’è già nell’anima l’attesa del futuro. Nessuno nega che il passato non è più, ma c’è ancora nell’anima la memoria del passato. E nessuno nega che il presente manca di durata perché subito cade nel passato; ma dura tuttavia l’attenzione attraverso la quale ciò che sarà passa, si allontana verso il passato»
(Sant’Agostino) le separa dal dato reale. Entrambe, poesia e pittura, dilatano la soglia dell’altrimenti e dell’altrove, come contingenza differente grazie ad uno scavo interiore, quello di cui parlava Foucault, capace di aprirsi all’infinito. Anche il filosofo e matematico Georg Cantor (1845-1918) mise in dubbio il complesso concetto di continuità e discontinuità, convinzione ripresa poi dal pensatore mistico Pavel A. Florenskij (1882-1937), uno dei più straordinari intellettuali russi del secolo scorso (fisico, matematico, filosofo, teologo, epistemologo, teorico dell’arte e del linguaggio, ingegnere elettrotecnico, semiologo). Entrambe, opera d’arte e poesia, possono essere percepite come una delle infinite variazioni della discontinuità in un’ottica interpretativa diversificata della “spazialità” e della “realtà concettuale”.
Se riflettiamo sulla “discontinuità” intesa come elemento di contemplazione del mondo viene da chiedersi che cosa contenga, in potenza, l’opera d’arte al di là della sua oggettività formale apparente. È vero che possiamo percepire una particolare presenza di “mistero” in ogni realtà naturale e la “percezione del mistero” è sempre un sentimento sincero e insondabile attraverso il quale possiamo accedere alle forme di “cristallizzazione del pensiero”. Ma il mistero, l’aura di un’opera d’arte è qualcosa di diverso. Davanti ad essa, dalla sua contemplazione nasce lo stupore che è meraviglia davanti alla bellezza. E lo stupore altro non è che una vertigine che ci coglie poiché abbiamo percepito quell’“invisibile”, quello “speciale sostanziale” che unisce l’uomo al cosmo, mistericamente. Perché nell’opera d’arte e nella poesia macrocosmo e microcosmo si incontrano.
Florenskij sottolineava che «l’uomo è parte del mondo, ma allo stesso tempo egli è complesso tanto quanto lo è il mondo. Il mondo è parte dell’uomo, ma anche il mondo è complesso tanto quanto lo è l’uomo». Questa nuova metafisica del pensiero applicata all’arte ci dischiude ad una comprensione diversa, al di fuori dei paradigmi tradizionali, per cogliere le latenze dei fenomeni della vita nella loro “integrità” che si fa forma. Sostanzialmente la forma è infatti interezza e individualità.
Spiegare troppo contribuirebbe a distruggere l’integrità della cosa, dunque dell’opera. Cerchiamo allora di affinare la nostra capacità percettiva per recepire pienamente il “sottile” che l’opera esprime!
Possiamo chiederci anche che cosa leghi intimamente l’opera d’arte - fatta di tecnica e forma nello spazio nel qui e ora - alla forma, allo scavo interiore, quello intimissimo dell’anima che l’artista e il poeta compiono. Ci ritroviamo di fronte alle dualità realtà esterna/vita interiore, natura/ cultura, essere/significato, forma/essenza.
L’opera è un’orma, come abbiamo sottolineato, il riflesso di uno scavo interiore, quella traccia speciale dell’anima che immagina e fantastica. Dunque è l’espressione più straordinaria dell’intima concessione fra materia e pensiero, specchio del segreto legame fra esteriorità (l’opera realizzata) e interiorità. Ragione e tecnica, azione e strumento, realtà e simbolo, corporeità e vita dello spirito. Ecco allora che il “corpo glorioso” dell’artista va inteso quale «energia morfo-poietica della vita [che] è l’involucro o una manifestazione dell’anima che ci separa dal mondo» (P.A.F.).
Poesia e pittura sono dunque espressioni antropomorfe, riflessi luminosi dello spirito che ci vivificano. Ed è su questa ermeneutica innovativa della forma e del simbolo indagata da Pavel A. Florenskij che si possono centrare i più arditi percorsi esplorativi nell’ambito della creatività anche se lo sguardo che l’opera d’arte induce resta sempre “multidirezionale”. Se riflettiamo, infatti, sui profondi legami tra natura e cultura, fra sentire e comprendere, percepire e vedere, esperienza e conoscenza ci rendiamo subito conto di quanto possa essere complessa la comprensione di un’opera.
Tempo e forma entrano in gioco e si innestano con la cultura che ognuno di noi in modo differente ha sedimentato in sé - come in un insieme complesso di organismi e di strumenti - e si manifestano interfacciandosi fra fisico e metafisico. Perché la forma, l’oggetto che vediamo o le parole che udiamo, altro non sono che “forma” che si è fatta “fenomeno” nel qui e ora.
Così Onorio Bravi e Nevio Spadoni, fra arte e poesia, in modo differente, ci parlano timbricamente della rielaborazione della loro stessa vita. Noi pos-siamo godere di questa assimilazione ideale nella fruizione del risultato della loro esperienza artistica. Ma è l’integrità, ancora una volta, il segno distintivo che caratterizza l’opera. Integrità intesa come incarnazione fenomenica dell’idea. Ecco dunque che emerge, in limpida evidenza, quell’originario segreto che connette forma e bellezza, poiché la percezione dell’integrità è proprio la “bellezza” stessa. Noi percepiamo l’opera d’arte nella sua incarnazione concreta, nel campo del reale, anche se avvertiamo che essa si sostanzia in qualcosa di più profondo, perché sentiamo il trasudare di una valenza misterica che va al di là dell’apparenza fenomenica. Ecco allora che il valore dell’immaginazione, nella sua concrezione formale, si fa rivelazione tangibile della personalità non misurabile del suo autore. La parola poetica e l’opera d’arte si pongono oltre il confine convenzionale reale essendo entrambe, sorprendentemente, in continua mutazione.
«L’ignoto è la vita del mondo» (Pavel A. Florenskij). La visione e l’ascolto possono dunque aprirci all’empiria, all’origine della conoscenza che, radicandosi nel mondo reale, può rendere trasparenti altri mondi. La simbologia espressa nell’opera d’arte e le metafore di cui si nutre la poesia dilatano lo sguardo oltre il visibile, penetrano nelle fenditure del reale facendoci percepire la presenza dell’inconoscibile. Perché il simbolo possiede forza logica, ontologica e salvifica. È attraverso di esso che si attua la comprensione più autentica delle cose, di quella realtà che entra in risonanza con il nostro inconscio. Il simbolo, allora, diviene la sostanza stessa della verità che compare sul confine tra i due mondi. Se la “parola” è il corpo udibile dell’anima e il dipinto il suo corpo formale la lingua è energia, corrente viva fatta di parole che rivitalizzano e danno memoria alla nostra esistenza.
Poesia e arte, entrambe, sono ciò che riluce e traluce, in intermittenza. Onorio Bravi e Nevio Spadoni in questo loro bellissimo omaggio corale ad una “Ravenna fantastica” - una Ravenna dell’anima - esperiscono una sorta di “carnalità di pensiero” in perfetta unità organica. Le gradazioni differenti del simbolismo dei loro mondi, in questo corpus di opere, si legano e si intrecciano, per noi, in una relazione vitale aprendoci ancora una volta alla soglia fra visibile e invisibile. Così, “trasparenza e traslucenza” si alternano e si stratificano come pulsazione di un sentire il mondo che è sostanza dell’essere nei suoi significati più profondi.