Nell’affrontare il tema degli arcani maggiori e di tutte le loro infinite, affascinanti e misteriose implicazioni gnoseologiche, Onorio Bravi procede secondo il suo metodo, ormai così consolidato da essere diventato una sua specifica cifra artistica: il procedere cioè per cicli, forse addirittura per ossessioni, scavate a lungo, a lungo indagate, guardate, approfondite. È come se un quarto linguaggio si fosse aggiunto a pittura, scultura e disegno, cioè alle tre discipline artistiche che incontriamo in questo grande ciclo: il tempo. O forse il tempo in Onorio Bravi è addirittura un materiale, come la malta di questi graffiti, o i colori dei dipinti. Occorre saperlo usare, in quantità e qualità, per poter raggiungere l’effetto compiuto dell’opera. I ventidue arcani maggiori, dunque, sono esplorati attraverso tutte le potenzialità espressive in possesso dell’artista. Il risultato è una varietà e qualità straordinaria di bellezza e ragione. Ma le opere non sono poi tante: quattro o cinque, se si contano anche i graffiti più piccoli e i disegni preparatori. Il fatto è che ogni ciclo corrisponde ad un’opera intera, da cui non è possibile estrarre nessun “pezzo” singolo, a sottolineare anche l’accento di “ossessione”, di permanenza nella durata del lavoro dell’artista e dell’applicazione del suo pensiero al mondo fantastico e contemporaneamente concreto nel suo effetto di conoscenza che viene effettuato durante l’opera.
Classico esempio di come il tempo sia esso stesso materia è dato dalle xilografie, nelle quali compare anche per la prima volta il colore. Tutto il procedimento che porta alla produzione di una xilografia è lungo, fatto di tappe, di attese, di riprese. Non è tempo che trascorre invano, solo, diciamo così, “tecnico”: è l’occasione di stare di fonte al singolo segno, al gesto della propria mano, assoluto e insindacabile nell’impossibilità dell’errore, e all’immagine che sorge con una lentezza d’altri tempi (per una disciplina che ha certo un sapore antico, pre-industriale), un po’ come se fosse inventata in diretta, progettata contemporaneamente al suo verificarsi.
Che il livello manuale del lavoro sia anche un livello spirituale, di meditazione, che trascende l’atto concreto, lo si può scorgere bene allo stesso modo anche nelle acqueforti, con il loro segno leggero e il grigio antracite che le contraddistingue. Anche in queste c’è l’esigenza di un lavoro attento e raffinato, che non ammette ripensamenti, a partire dalla traccia lasciata sulle lastre-matrice: gesto e pensiero artistico devono obbligatoriamente fondersi, per rendere insieme la profondità e la leggerezza del percorso che, ancora una volta, è fatto di tempo e materia, lentezza ed esattezza del gesto.
I ventidue graffiti formati da uno strato di malta e di calce e poi inseriti deliziosamente dentro una teca, ci ricordano un’altra caratteristica peculiare del lavoro di Onorio Bravi: il tempo, questa volta, come rimando a suggestioni arcaiche, a una profondità e lontananza cronologica che sembra attingere alle origini stesse del primo gesto umano d’artista. C’è stato evidentemente un punto nella storia dell’umanità in cui mano, occhio e pensiero si sono incontrati e hanno fatto scaturire una scintilla non più solo ferina, ma finalmente metafisica. Andare laggiù, in quell’inizio, sembra essere una costante tensione di questo artista. Nei ventidue graffiti più piccoli, che si affiancano ai grandi apparentemente “in minore”, esiste in realtà una volontà di sintesi che ne potenzia enormemente l’essenzialità.
Infine i ventidue dipinti, che sono forse il momento più chiaramente narrativo di questo insieme di cicli. In questo caso siamo messi di nuovo di fronte alla grande ricerca del colore, e del gioco di vicinanze di colori, che da molto tempo ha portato Bravi a condensare, anche in questo caso, una sua specificità, una cifra inconfondibile. Anche solo dalla scelta del singolo colore per raccontare il singolo arcano, o dalle ricorrenze simboliche di ogni colore (si pensi all’uso del verde), potremmo riconoscere un dipinto di questo pittore, segno che la distillazione dello stile è giunta alla piena maturazione. Così non solo la figura, ma anche il colore stesso racconta l’arcano e, allo stesso tempo, racconta il gesto che lo sta plasmando.
Ma perché gli arcani maggiori? Essi sembrano molto bene dialogare con la preoccupazione operativa di Onorio Bravi. Sono infatti consonanti col mondo fantastico, come porta a un mondo superiore, al cui avvicinamento è deputata l’arte nella poetica di questo artista, il quale ha proprio affermato che essa è «funzione al di sopra della vita quotidiana, che ci obbliga a pensare ad aspetti superiori». Di qui, dunque, tutto il valore dato alla meditazione e alla contemplazione della figura così come essa esce dalla propria mano, e al tempo che occorre perché qualcosa di nuovo nasca. Qualcosa di nuovo che non è solo la semplice opera, ma anche una nuova conoscenza, una scoperta, un inedito contatto con il mondo fantastico, che agendo in noi, trova nell’arte una potente proiezione esteriore.
Per questo il critico Janus ha parlato di «opere altamente emotive e surreali» (“sopra il reale”, quindi superiori, possiamo aggiungere) e del loro creatore come di un «seminatore di emozioni». Emozioni non fini a se stesse ma dentro un formidabile percorso conoscitivo del mistero di sé, tant’è che lo stesso critico paragona il lavoro di Onorio Bravi a quello di chi è solito dissodare la terra, o scendere nella miniera della luce interiore. Cosa trova l’artista in questa miniera? Nulla di esattamente circoscrivibile, ma una luce sì: si intravede una luce di speranza rispetto alla storia d’oggi, così piena di tragiche evenienze. Una speranza data anche da una sottilissima, assolutamente non sfacciata allegria, dei colori e dei segni, a riprova di un altro aspetto caratteristico espresso da Onorio Bravi, per cui l’opera d’arte è sempre la «concretizzazione di un attimo libero».