Sabina Ghinassi - Onorio Bravi

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Testi Critici
ONORIO BRAVI opere 1999-2003 
di Sabina Ghinassi

Dichiarare un viscerale amore per la pittura appare un atteggiamento in conto-tendenza di questi tempi. Tanto più se si tratta di pittura lontanissima da atmosfere di sapore minimalista o post-concettuale, o da seduzioni nei confronti di fotografia o web art. Bravi in questo appare in controtendenza, lui dipinge in maniera calda e sensuale; la sua è una vocazione dichiarata per il corpo intero della pittura; di cui lui accetta tutto: forma, colore, pennellata, materia, gesto. Se di eredità del territorio si vuol parlare, si può forse accennare a quell’inflessione intimista e struggente che ha caratterizzato molti degli artisti romagnoli del XX secolo. E’ una radice dalla quale partire per muoversi verso altre direzioni, certamente più affini ad esperienze diverse, di tipo espressionista in questo caso che, velatamente, ricordano la commovente bellezza di certi artisti nordici, come Nolde, ad esempio.
Per Bravi quando si tratta di paesaggio la natura non è mai una visione oggettiva, né attinge a linguaggi documentaristici, ma diventa una sedimentazione dello sguardo interiore che scivola vellutata in una sinfonia di toni preziosi e si allarga in un respiro dilatato verso l’orizzonte, incredibilmente libero. Bravi è in fondo un romantico, neo-romantico per forma mentis.
Allo stesso tempo la sua è una scrittura lontana da ascensioni informali, da pulsioni organico-esistenziali, da quel ribollire segretamente materico che è stato l’Ultimo Naturalismo. Morlotti. Eppure Onorio Bravi è diverso. Diverso dalla pittura figurativa del territorio, lontano dalle linee maestre di questo scorcio di secolo. Curiosamente personale e sconcertante, a rébour oppure, inconsapevolmente e totalmente, autonomo. I suoi dipinti si avvicinano ad una dialettica nabis, profetici e puri, intuitivi e visionari; sono costruiti su una struttura solidamente impostata su un colore prezioso, virtuoso, appagante, intenso e, ad un tempo, simbolicamente denso di echi, di intuizioni liriche.



E ciò che appare sulla tela, sulle superfici, non possiede volontà di deflagrazione rabbiosa, ma si pone al contrario come graduale codificazione di percezioni interiori che trasfigurano il fuori, l’esterno attraverso un’affettività dolce, morbidamente assestata su corde di empatia gentile.
Sono albe, crepuscoli che affondano i loro umori nelle atmosfere del cielo, che si fa di fuoco appassionato o smeraldo gemmeo, si accende di bagliori boreali per perdersi nel turchino di una notte che abbraccia lieve il sogno degli uomini. Sono notti senza stelle, senza astri freddi e distanti; sono notti fatte della stessa sostanza dei sogni mortali. Materia onirica che si addensa in velature corpose, che si fa corpo, luce, anima del paesaggio, si dilata nei verdi muschiosi dei prati, si libera nei grigi cinerei di nubi intuite, nelle ombre blu dei profili di ruderi, di rovine.
Quelle costruzioni esistono o sono soltanto vagheggiate, sussurrate in un viaggio notturno.
Ed è così che la scelta poetica di Bravi diventa ancor più impregnata di sapore romantico, come romantico o post-simbolista resta il suo modo di percepirla e, alla fine, consegnarla allo sguardo. “Devo compiere un atto di osmosi con quello che mi circonda, diventare una sola cosa con le mie nuvole e le mie montagne per potere essere quello che sono” diceva Caspar David Friedrich a proposito del dipingere. E sulla stessa regola aurea sembra essersi posto quietamente Bravi con questa pittura che, pur essendo totalmente contemporanea, dichiara apertamente paternità, affiliazioni, modus sentiendi, seppure in senso profondamente ed intimamente poetico.
Resta quindi lontano dalle atmosfere gelide del web, quasi come se, con impercettibile snobismo, dicesse la vita è fuori, non qui, chiusa tra mura di solipsismi elettronici o di dialettiche mentali.
Allo stesso modo nei lavori dove l’asse portante non è più il colore, ma l’incidere, il solcare con forza le superfici, ritorna la stessa impostazione mentale. Qui il gesto e la sua ingenuità preziosa diventano un tessuto emotivo nel quale si raccontano storie che sembrano raccolte da un libro misterico. Evocazioni che si rapprendono nella loro dimensione fiabesca, personaggi che si animano in architetture labirintiche. Luoghi dove prende vita una sorta di risonanza interiore raccontata con un linguaggio apparentemente infantile che graffia, anima febbrilmente le superfici con storie, personaggi, racconti a prima vista candidi dove si narra di maternità, uomini e santi visionari.
Scelta tanto arcaica quanto densa nei riferimenti di senso, nelle dichiarate filiazioni.
Una scelta di strumenti elementari, primari, Brut, per citare Jean Debuffet, che ricorda i graffiti rupestri di Lascaux ed in Onorio Bravi raggiunge un’esattezza calligrafica ed elegante, nient’affatto casuale, eppure inconsuetamente fresca ed immediata.
E’ un dono speciale raccolto insieme alle illuminazioni sul colore, così intenso e prezioso, durante un lungo soggiorno nell’Africa del Nord, luogo di contrasti luminosi, di terre aride e castelli di sabbia, di cieli sconfinati. Probabilmente è proprio questo tempo passato in Algeria ad avere lasciato impronte indelebili nel suo sguardo, a scorrere impetuoso tra il velluto delle pennellate e l’aggressione del bulino, forte e rabbiosa quasi come quella espressionista, a scivolare tra le dissolvenze tonali incandescenti e le tachées avvolgenti delle pitture ed i segni neri, rapidi ed aspri, delle incisioni. Eppure la sostanza ed il cuore della sua poetica non sono contradditori e si nutrono di questi contrasti, rimanendo sorprendentemente in equilibrio tra tensioni diverse ed ottenendo sempre la qualità.
La qualità della passione, a volte inspiegabile, che lega lo sguardo e la mano di un pittore, contemporaneo ed antico al tempo stesso, alla visione del mondo.


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