Quando in arte la forma e il colore si fanno portatori di un pensiero che distrugge la barriera tra l’artista e il mondo circostante in un’immagine che unisce la massima semplicità e la grandezza, collega masse e superfici in una tensione quasi astratta, fonde il senso della pienezza con l’ebbrezza dell’emozione, e le forme, monumentali, insieme terribili e divine, sono tali da apparire presenti e passate, non vi è dubbio che siamo difronte al sussulto di un mondo sottostante che sprigiona un’espressione sovrastante di natura originaria, fuori dal tempo.
L’opera di Onorio Bravi si pone all’incrocio dei pali fra dimensione onirica e realtà, nel teatro di una “maschera” primordiale che avvolge forme e figure nel buio di una dimensione panica del rapporto tra arte e vita.
L’artista è il maestro di scena di uno spettacolo teatrale che assembla le componenti figurative, al limite dell’astratto ma sempre marcatamente plastiche, in una forma-colore densa e incisiva che staglia e definisce i volumi di un mondo autonomo e autoreferenziale che si sostanzia in una visione che ha come scelta il realismo, ma come tendenza la sua trasfigurazione in una fuga fantastica e surreale.
Tutto ciò si evince da uno sguardo lungo, per così dire rovesciato, della sua opera. Se infatti si osserva uno qualunque dei suoi lavori si vede come da un brano singolo, o particolare di stampo fondatamente astratto, si risale a una visione più realistica, naturalista del soggetto trasfigurata però in una visione irreale, di super realtà che resta fissa, stabilita in un’immagine quasi iconica della forma che si realizza in ogni opera.
Ed è questa, alla fine, la cifra che resiste alla disseminazione di queste forme postulate da Onorio Bravi, un valore che supera la gamma delle determinazioni naturali nel contraccolpo, nello scambio in una natura del sentimento come viatico, come aspirazione, direi, ad un’estetica dell’incertezza contro la perenne certezza delle cose. La strategia di una passione segreta, insomma, con la quale, disarticolando il mondo dei rapporti socialmente determinabili e assemblandolo con lucidità cromatica e distacco visionario, si conferisce un senso all’intricato mondo delle contraddizioni.
Una sorta di organismo narrante, energetico e scioccante aziona una modalità esperienziale mediante una tecnica espressiva, performativa, direi – se non si trattasse di una pratica invece approfondita e minuziosa quanto quella di un abile certosino – della pittura che svela , disvela o introduce un mondo non visto, come se l’immagine fosse il riflesso di uno sguardo anteriore primordiale, proiettato su una tela per effetto di un’emanazione dell’organismo che si autoproduce all’infinito, nel suo trascorrere e divenire estetico.
Ciò che rimane, alla fine, di queste svagate, inafferrabili forme, é il senso anche tattile di un’ineludibile presenza, la corposità di un’opera simbolo di un incontro fra il corpo della materia e il linguaggio come risultante di un comportamento libero e istintivo.
Per questa via si configura un taglio, un’alterazione della realtà genericamente inalterabile e insorgono il mistero e il fantastico come luoghi di un’altra realtà, sconcertante ma pregna di phatos, Ravenna mitica e lontana.
Il mito affiora come “corpus”, storia da raccontare attraverso immagini e tasselli combinabili in una grande sintesi in cui tutto si interseca, come ha insegnato Robert Graves nel suo pregevole studio sui miti, “ in un sistema di analisi che poggia su basi storiche e antropologiche provenienti da una medesima fonte.” 1
E sono proprio il valore mitico, il senso del mistero, la trasformazione “metafisica” e surreale, il nascondimento formale del dato oggettuale come consolante oblio della vita vera, che fanno di Onorio Bravi quasi un omeride in un poetico viaggio verso una terra sconosciuta.
Sicché i luoghi storici della città, sia quelli frequentati quotidianamente che sono stati a loro volta trasformati, sia le celebri architetture che ne costituiscono l’identità, vengono proiettati su un piano ribaltato e recuperati nel mito di una memoria storica fatalmente ritrovata nel fuoco dell’immaginazione e del colore, e Ravenna si fa immagine di una favola raccontata a partire dal buio di una notte ancestrale nella quale scorrono uomini, volti, edifici e mausolei avanti e indietro nel Tempo, come direbbe Platone nel suo Timeo, come immagini mobili dell’eternità.2
Una favola eroica e sovrannaturale sebbene descritta in forma realistica.
I luoghi, allora, diventano corpi fisici e mentali di un’estensione della memoria perché il linguaggio di Onorio Bravi, di per sé ermetico, proteso a corteggiare l’enigma, in realtà è tutt’altro che velato ed intento a proclamare, o ad esaltare, l’esclusiva unicità e l’appartenenza, in una parola l’identità di Ravenna.
Per questa via si transita dai corpi fisici all’emozione. Masse e colori si allargano, per così dire, a una dimensione psicologica in cui le diverse sfumature riguardano una rappresentazione della città fatta di ombre, luci e guizzi tonali che se non sono propriamente romantici ne recano i timbri e ne esaltano i valori esistenziali, paradigmatici, quali il senso della solitudine, del distacco o quello, addirittura, dell’abbandono.
Ma si tratta in ogni caso, a ben considerare l’intero ciclo pittorico che qui si presenta, di una città che è divenuta icona per l’emergere, in virtù del linguaggio dell’artista, di un corpo visibile, capace cioè di fissare la dimensione del tempo dentro le molteplici immagini di Ravenna che appartengono alla memoria collettiva, e di evidenziarne una che sia in grado, per così dire, dì assommare tutte le ragioni della somiglianza.
Una sorta di ripresa magica della realtà esperita a metà strada della fotografia e del ricordo, all’incrocio dei pali, come appunto sostenevo all’inizio, nel punto d’intersezione fra la memoria e la coscienza da cui sgorga la visione come effetto, giusta l’impostazione di Henry Bergson, prodotto del flusso e dalla durata del tempo interiore. Il filosofo, infatti, sosteneva: “Ciò che registra la durata reale è la singola coscienza per la quale il tempo è inesteso e non divisibile, qualitativo ed eterogeneo, non misurabile ed irreversibile.”3
Una visione che però non si logora, non si dispende nell’azione pittorica per quanto rapida possa essere, ma si cristallizza in un‘ opera che “fa mondo”, in una rappresentazione significante e totalizzante che muove alla ricerca dell’identità ideale della città intesa come centro di una connotazione simbolica suscettibile di una più efficace continuità percettiva.
Per cui si direbbe che la centralità di quest’opera sia da ricercarsi in un rapporto edipico dell’artista con la città vissuto e interiorizzato come luogo di un'altra civiltà che l’accerchia e l’avvolge come un’ombra che si prospetta come varco, come essenza e patria avvertita anche come frontiera impossibile da vivere.4
Il desiderio, forse, dell’artista, di elevare Ravenna in un altro spazio rispetto alla realtà che ne perpetua la subalternità e ricucire uno strappo, un taglio o una ferita per riconoscere il proprio stesso corpo.
Il questo senso mi pare si orienti la pittura di Onorio Bravi, che, anche se legata alla storia, ai monumenti e alle piazze della città, sa trascenderla in una dimensione lirica che riesce far emergere un infinito molto più concreto di ogni dato occasionale. E questa è una grande lezione di arte.
Un’ultima considerazione mi sia consentita.
Nell’arte bizantina, come sappiamo, e in particolare nei monumenti di Ravenna, l’effetto di magica sospensione del tempo e della realtà è dato soprattutto dalla forte antitesi che si rivela fra l’esterno e gli interni dei monumenti medesimi. Povero e scarno, semplice ed essenziale l’esterno quanto ricco e favoloso, fantastico e irreale l’interno. Orbene, l’opera di Onorio Bravi, a ben considerarla, restituisce pienamente tale sensazione. Così consistente e sovrastante nelle masse e nei volumi, dove la materia pittorica si addensa in una stratificazione di elementi semplici e poveri sovrapposti - in realtà pennellate dense e descrittive – quanto fantastica negli interni mosaicati e stellati in cui le tonalità, la forza simbolica e il colore conferiscono agli stessi le atmosfere dorate o notturne, come nell’opera del mausoleo di Galla Placidia.
E proprio a Galla Placidia – per inciso - e alla sua presenza a Cosenza quale ostaggio di Alarico in seguito alla conquista e al saccheggio di Roma, è dedicata la mostra di Onorio Bravi nel MAM, Museo delle Arti e dei mestieri di Cosenza
Al fascino di Galla Placidia, la “ nobilissima” imperatrice di Roma, al suo mausoleo di Ravenna e alla cupola stellata Onorio Bravi dedica una delle sue opere più intense, forse perché a sentire dell’artista è un altare, il simbolo davanti al quale s’inchinano e riflettono il mistero dell’arte, della donna e di Ravenna.
E a proposito della donna c’è solo da aggiungere, concludendo, che nell’opera dell’artista ravennate, già così pregna e carica di mistero, un altro ne emerge con tutta la forza della sua valenza catartica: la donna, appunto. Alla figura femminile Onorio dedica diverse opere e sempre la rappresenta in maniera ambigua , - circondata da un’aura che affida al colore, al segno svagato e alle stranianti tonalità cromatiche il compito di smaterializzarla quanto più possibile - sempre avvolta dal mistero, e anzi così misteriosa – e forse mitizzata - da costituire un tutt’uno con le chiese, le piazze e la stessa Ravenna, magica e silenziosa. Si tratta forse, come si evince dal presente ciclo pittorico qui presentato e dalle numerose incisioni, di una specie di prototipo femminile cui sembra partecipare la stessa Ravenna – non a caso anch’essa al femminile - o forse si tratta di altro, del mistero della donna sic et sempliciter che qui trova un suo quasi naturale, originale e costante campo di manifestazione.
Gianfranco Labrosciano
Note
1 Robert Graves, I Miti, Mondadori , 1982
2 Platone, Timeo, Bompiani, 2000
3 Henry Bergson, Materia e memoria, Laterza, 1994
4 C.Magris , Perché lei è nato a Praga, in Itaca e oltre, Roma , 1982, pag. 149