Verso i 30 anni alla metà degli anni Ottanta, Onorio Bravi, avvertendo l’esigenza di dar voce a quella passione che fin dall’infanzia si manifestava occasionalmente, decide di dare una svolta alla vita e di intraprendere la strada dell’arte. Ovviamente non come dilettante. Dopo un periodo di collaborazione con Giovanni Strada, artista ravennate che allora spaziava dalla scultura al mosaico e alla pittura, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Ravenna e frequenta i corsi di incisione di Matteo Accarino, di scenotecnica di Koki Fregni, di pittura di Vittorio d’Augusta e del rumeno Radu Dragomirescu. Mentre riorganizza e completa la formazione culturale e artistica, pur non avendo ancora chiaro quale dovesse essere l’ambito conforme alle sue potenzialità creative, realizza le prime sculture in ferro e acciaio. Gli esordi del suo percorso artistico risentono della varietà di esperienze e di frequentazioni con vari artisti romagnoli; tra l’altro, spinto dalla curiosità per un decennio a partire dal 1990 si impegna con il gruppo “carristi” di Massa Forese di Ravenna come scenografo e modellista per l’allestimento di carri allegorici. Esperienza significativa, non solo per gli esiti quanto per la consapevolezza che l’improvvisazione vada ricondotta sistematicamente a un’idea stabile, a un progetto. Da questo momento per evitare sbandamenti inizia a lavorare per cicli e nuclei tematici strutturati che consentono di sviluppare ed esprimere riflessioni per immagini, utilizzando soprattutto la pittura e l’incisione. La sua attenzione è rivolta al paesaggio, non per gli aspetti descrittivi e naturalistici, quanto per la dimensione atmosferica in grado di accogliere e di dare forza espressiva a situazioni e stati mentali.
La concezione dello spazio naturale trasformato in spazio pittorico ed emozionale è suggerita dalla breve quanto intensa esperienza in Algeria e dal ricordo vivo dei luoghi dell’infanzia sull’appennino tosco-romagnolo. Così, le ambientazioni, tra il reale e l’immaginario, popolate da architetture geometriche fantastiche, arcate, case e torri dai volumi contorti, tendenti all’appiattimento, evocano un mondo originario, quello arcaico e primitivo delle pitture rupestri che il tempo non ha cancellato, e si prestano come fondali di un teatro della memoria, in attesa che sul palcoscenico dell’immaginazione inizi la rappresentazione di vicende in forma di psicodramma. Ma prima di tutto la scena e l’azione vanno create e costruite. Ecco allora l’inserimento di figure, di sagome umane delineate nella loro essenzialità. Spesso appaiono abbandonate e smarrite con le braccia alzate in segno di resa, oppure inginocchiate, accovacciate e immobili come se stessero aspettando qualche evento che oltrepassi il momento attuale, anche se, magari, non succederà mai. I ritratti, poi, privi di ogni riferimento fisiognomico, nella loro evanescenza, testimoniano una condizione esistenziale libera da condizionamenti e non costretta entro confini limitati e invalicabili, tanto che Bravi li considera “frammenti di un unico grande ritratto, un autoritratto reiterato, forse un paesaggio dell’anima”. Lo sconfinamento oltre il dato realistico è reso da una pittura tenebrosa e notturna, evocante una dimensione sospesa tra passato e futuro. L’indeterminatezza temporale è rafforzata dalla fluida pastosità cromatica e dagli accostamenti contrastanti dei viola, dei blu, dei rossi e dei gialli. Pur in assenza di vibrazioni solari non è fredda, anzi gli scorci luminosi di un chiarore lunare trattengono e trasmettono calore ed energia, accentuando la tensione emotiva. In particolare, i sempre più frequenti inserimenti fluorescenti, squillanti ed esplosivi, rendono le composizioni cariche di spessore sentimentale, tanto che Jauns nella presentazione della mostra “Momenti contingenti” lo definiva “seminatore di emozioni”, anticipando il titolo della recente mostra di Bagnacavallo.