L’entroterra di Ravenna è piatto. Le prime colline dell’Appennino romagnolo sono troppo lontane per fare da fondale allo sguardo, ai campi coltivati, alla nebbia.
E il mare, se non fosse per i gabbiani, è come dimenticato dentro la dimensione di un’idea astratta, che man mano, nei secoli e nei millenni, prende le distanze dalla terra e lentamente, sdegnosamente, si ritrae. La pianura non pone argini ai pensieri. Dicono che chi nasce in questi luoghi, e ne respira l’atmosfera, è portato a fantasticare lontananze, a coltivare sogni e silenzi, a inventare storie, a meditare; forse a pregare.
In questi viaggi dello sguardo e della mente, il campanile di Sant’Apollinare in Classe è un punto fermo: il faro di rotte visionarie. Dalla celebre basilica, gli occhi dei mosaici bizantini guardano lontano e altrove, al di là della pianura, oltre il tempo e le vicende della terra, oltre la vita.
Ho pensato a quegli occhi fissi e ieratici - che trattengono nelle tessere vitree la sacralità di antichi gesti artigiani - guardando i volti di Onorio Bravi. Una teoria di volti che si ripetono, uguali nelle dimensioni, nell’impostazione della forma, nell’ostinazione di una ricerca, interiore più che stilistica, eppure diversi nei colori, nell’ansia espressiva, nei movimenti delle pennellate, violente e dolci, e nei differenti gradienti di inquietudine. Sono dipinti su tavolette di legno, ché la tela mal sopporterebbe l’aggressione di pennelli pressati con forza, a setola rigida, impugnati a volte come armi in un corpo a corpo con la pittura, senza tregua, senza pause finché regge l’emozione. Sono un pittore e conosco l’odore e l’attrito degli impasti colorati, i grumi di ossidi e di terre, e riconosco, nelle pitture di Onorio, i battiti del cuore, le pause e i rallentamenti, il rimbombo di un viola terroso, la speranza di un azzurro oltremare non ancora sopraffatto dal cupo blu di Prussia, la carezza di un rosa steso con pennelli sfilacciati, contropelo, con leggerezza, per rubare all’angoscia un poco di felicità, però trattenuta, per non concedere troppo a qualche seduzione, alla voglia di decorazione, che non è un delitto, come pretendeva Loos, ma solo un meritato piccolo premio che la pittura offre a chi sa dipingere. Il colore del fondo partecipa all’espressione dei lineamenti, la esalta per contrasti di luce, per armonie o per calibrate dissonanze, anche per stridori, quando occorre. Un giallo squillante, incorniciando un volto, appare come la versione moderna e laica del fondo oro di un’icona trecentesca.
L’istinto pittorico risolve in linguaggio espressivo ogni problema formale, certamente con cultura, ma anche con quel tanto di atteggiamento näif, popolare e mistico, che non toglie nulla alla sapienza del mestiere, anzi certifica la verità dell’ispirazione. Viene naturale percepire quei volti come autoritratti - ogni pittore non fa altro che dipingere se stesso - e forse lo sono, poiché in essi Onorio si immedesima: nella loro essenza pittorica, nella materia, nelle loro ossessioni, non nella somiglianza esteriore.
In realtà i volti che egli dipinge sono icone di una umanità di oggi, sofferente, multietnica, spaesata nel generale frastuono, impossibilitata a comunicare, estranea a se stessa, ma non rassegnata e forse coinvolta in un sogno di speranza. Nella fantasia onirica della pittura sia benvenuto un nuovo “impegno”.
Alla fine di questo breve testo, pittorico più che letterario, - ma per un pittore le parole sono come i colori ed io non saprei farne un uso diverso - mi concedo un atto di pirateria creativa: dedico ad Onorio Bravi trentotto parole “intercettate” nell’ordine dentro il testo di Janus, profondamente bello, e qui trascritte in forma di poesia. Un’indebita appropriazione, un furto, ma anche, spero,