Roberta Bertozzi - Onorio Bravi

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Testi Critici
Nubi di cognizioni
di Roberta Bertozzi

Due discorsi paralleli, anche se in ultima istanza convergenti, possono essere fatti per i tarocchi, e in genere per qualsiasi altro tipo di supporto iconico impiegato a
scopo divinatorio. Il primo riguarda il carattere universale della loro simbologia, il loro essere paradigmi o nuclei archetipici che attraversano, secondo differenti declinazioni, tutte le culture. L’altro, invece, descrive quella dimensione strettamente personale, destinica, che i tarocchi rivestono durante la pratica interpretativa: l’oracolo viene interrogato dal singolo e dal singolo soltanto, che cerca per suo tramite di trovare accesso al significato di una condizione presente, un significato di cui lui stesso è in gran parte responsabile.
Questa concomitanza di un principio transindividuale e di uno individuale era già stata rilevata da Carl Gustav Jung, nei suoi studi sui sistemi mantici e sul simbolismo sacro. Jung sosteneva che l’azione divinatoria si riflette nell’attimo in cui viene compiuta, contemplando perciò l’aspetto soggettivo e l’accidentalità della situazione in cui si trova l’osservatore-vaticinante. La lettura finale consisterebbe nella somma dei dati oggettivi rappresentati dai segni e del dato soggettivo introdotto dalla loro interpretazione: siamo noi a far convergere le probabili, a riconciliare tutti gli elementi in modo da formare uno schema razionalmente riconoscibile di relazione. Cosa ancor più interessante è il punto d’arrivo del ragionamento di Jung: il risultato di questa procedura, ovviamente frammentario e incerto, condividerebbe qualcosa con la sfera del naturale, dato che le formulazioni spesso vaghe delle pratiche divinatorie assomigliano a quelle “nubi di cognizione” che, secondo Jung, incarnano il modello universale di estrinsecazione dell’archetipo.



In altri termini, se “nebulosa” è la decifrazione dell’archetipo, una zona d’ombra attribuibile alla nostra esperienza del tutto soggettiva e contingente, alla stessa stregua le immagini archetipiche, pur stagliandosi con netta perentorietà, presentano sempre un residuo ineffabile e misterioso, trattengono un qualcosa in più (o in meno) che è presupposto dell’enigma. Per parafrasare Baudelaire, «la Natura è un tempio ove viventi pilastri / a volte confuse parole mandano fuori». Se ho inteso sottolineare questa duplice valenza dei tarocchi è perché ho il sospetto che in queste opere di Onorio Bravi essa emerga in modo estremamente esplicito. Dei tarocchi viene infatti qui esposta sia la matrice ancestrale, passando per le numerosissime figure chiave in cui essa si scinde, sia l’attimo semi-estatico della sua intellezione da parte del soggetto, con l’esito di fondere nel perimetro di una tela un duplice canale simbolico: la presenza dell’oracolo e l’impressione che di esso può ricevere chi appunto lo
consulta. L’effetto è quello di una combustione esponenziale del materiale messo in gioco, ricalcando alla lettera la dinamica del processo simbolico, che è allo stesso tempo una esperienza di immagini e in immagini.
È come se l’artista dovesse contemporaneamente combinare l’oggetto e la sua posizione di fronte all’oggetto; la lontananza, l’ambiguità costitutiva del dato di natura (sigillata nella pronuncia generica di un responso) e l’ambiguità della nostra condizione di esseri interpretanti, di esseri che non possono fare a meno di rinnovare domande. Questa operazione non può che sfociare in una sorta di bizantinismo sui generis, dove il carattere del sensibile - rappresentato dalla decodificazione delle figure - e quello dello spirituale - la loro icasticità originaria - convivono senza giuntura alcuna.
In altri termini, nelle opere di Bravi l’immagine è in una volta se stessa e la propria trasfigurazione. La sua sintassi compositiva si svolge su questo doppio crinale, e il tentativo di conciliazione non può che giocare a scapito della verosimiglianza, con irruenza di sintesi, con la necessaria subordinazione del dettaglio all’intensità della visione e dell’arcano che essa veicola. Nello specifico della sua tecnica, sono soprattutto l’impetuosità cromatica e l’intaglio della pennellata a realizzare queste vere e proprie epifanie figurative, come parabole visuali perfettamente allineate alla sostanziale diffusività dell’oracolo, alla sua trionfante manifestazione - quasi si trovassero lì unicamente per biasimare l’ardire della nostra richiesta. C’è in effetti un vigore in questi quadri, un’accensione, che si concentra soprattutto nel tratto, rapido ed energico, la cui giustizia complessiva fuga ogni dubbio di sommarietà, quando la sommarietà stessa è specchio dell’esperienza della divinazione. Si vedano anche, a questo proposito, le xilografie e le acqueforti, dove la contrazione, gli stacchi e i sussulti del segno grafico, raggiungono la massima tonalità emotiva. Non senza suggerire anche un certo primitivismo della psiche, una implicita naïveté, che ci riporta a quel substrato popolare da cui hanno avuto origine i tarocchi, a quel loro accompagnare una funzione prettamente ludica a una funzione esoterica, quel loro essere carte da gioco e insieme segni dell’occulto. Sono tuttavia dell’idea che l’operazione di Onorio Bravi punti ad altri spessori: perché ogni elemento delle sue tele rivela innanzitutto una risoluta concessione al simbolico, al ponte metaforico, come modalità effettiva di conoscenza. Ciò che esse attualizzano, nel richiamo al talismano e alla proiezione di cui viene investito, è una forma di logomanzia, e la logomanzia non può darsi se non per ellissi, abbreviazioni, per riduzione semplice e immediata di una complessa rete di attività emotive, sensoriali e cognitive. Ogni elemento, da quelli formali a quelli tematici, si calibra su questo metodo, riproducendo a perfezione quel fondamento nebuloso teorizzato da Jung, capace di trarre nel suo centro natura e cultura, oggetto e soggetto, impulso e raziocinio.
È l’oracolo stesso a parlarci per metafore: non rivela (léghei), non nasconde (krùptei), ma fa segni (sêmaìnei). È la nostra impotenza,
l’impotenza del linguaggio a trarre una significazione piena da questi segni, dà forma all’enigma, così come lo descrive Giorgio Agamben: «un dire in cui la frattura originale della presenza era allusa nel paradosso di una parola che si avvicina al suo oggetto tenendolo indefinitamente a distanza». Ecco, ogni elemento della pittura di Bravi è diretto a tradurre questa distanza: distanza da un senso definito, da una precisione rappresentativa, facendosi compiuto indice della strutturale polisemia dell’esistente. Così come noi interroghiamo l’oracolo, l’oracolo ci interroga a sua volta: ci spinge ad affinare lo sguardo, ci indica un limite, ci sollecita.
Il simbolico cui guarda Bravi non è solo una possibile forma di conoscenza, ma quel perno che ci attesta ontologicamente. Perché, come ha scritto Roland Barthes, «non è l’uomo che costituisce il simbolico, ma il simbolico che costituisce l’uomo. Quando l’uomo entra nel mondo entra nel simbolico che c’è già».
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