Le partiture critiche e le parole poetiche a corredo dell’opera d’arte non sono altro che “storie di profezie”, orme di valore che accompagnano la loro comprensione. Una sorta di termometri di maturazione, per alcuni non sostanziali, che interpretano differenti circostanze emozionali. La parola “profezia” suscita immediatamente la forma percettiva di un oracolo notturno e fumoso che sembra volerci proiettare in un futuro predeterminato. Così come la parola “tarocco”. Di fatto le parole critiche offrono solo possibilità interpretative e chiavi d’accesso al linguaggio simbolico dell’opera d’arte lasciando ampio spazio immaginativo allo spettatore. Si tratta sempre di “parole moltiplicatrici” che misurano la temperatura, indagano slanci e ferite operando negli interstizi dell’immagine per una memoria persistente, in differenti forme e con sfumature variabili di intensità. Perché ogni artista è un intero universo che ci nutre di tonalità differenti, gradazioni di potenzialità che lo portano a modalità creative uniche e irripetibili, peculiari e inconfondibili, nutrimento per i nostri occhi. Perché nella propria opera l’artista invera se stesso.
Ho indagato a lungo l’enigma degli arcani maggiori dei tarocchi sin dagli anni ‘80 quando li affrontai come artista, poi nel 2006, come curatore, per prepararmi al progetto delle celebrazioni del millenario della Basilica Cattedrale di Sarsina dedicata al Protovescovo esorcista San Vicinio. Ripercorsi, allora, le parole di Italo Calvino nel racconto Il Castello dei destini incrociati pubblicato da Franco Maria Ricci in un sontuoso catalogo istoriato dai tarocchi del Bembo. Poi ho proseguito con Alejandro Jodorowsky, Antonio Bertoli, Gianluca Magi, e in anni più recenti ho conosciuto Andrea Vitali, Presidente dell’Associazione Le Tarot di Faenza, meticoloso storico di simbolismo medievale e rinascimentale. Con Onorio Bravi abbiamo seguito alcuni suoi corsi di approfondimento per entrare ancor più in questo simbolico mondo. Credo che proprio da questa esperienza sia nata la necessità e il desiderio per il “Nostro” di iniziare una perlustrazione feconda nel periplo di questo affascinante arcipelago.
Da questa indagine introspettiva sono nati cinque sentieri di Bellezza: ventidue simboliche carte che possiamo ammirare oggi. La rivisitazione di queste lame mediante tecniche differenti quali pittura, graffito, acquaforte e xilografia ha condotto Onorio Bravi ad una mappatura espressiva molto articolata per completare quel suo ideale “apprendistato al vedere” che aveva radici lontane. Infatti, era sua madre una appassionata “tarologa”. Ecco allora che al messaggio sincretico di questi “sigilli” - che già nella struttura numerologica del 22 si rifanno alla mistica cristiana per far giungere l’uomo alla perfetta contemplazione del divino - Onorio ha unito l’immediatezza del suo fare arte, in una naturale convergenza transduttiva di senso estetico e di valore etico. C’è chi vedrà in queste tavole unicamente bellissime “opere d’arte” e chi ne « [...] speculare è fantasticare ed il fantasticare crea dei visionari. La fantasia non è costruita su alcun fondamento, bensì ad ognuno è data la libertà e a ognuno è rimessa con tutta naturalezza la facoltà di fantasticare su quel che vuole e come vuole» (Paracelso, Paragrano)13 percepirà, invece, il senso più misterico e profondo; chi le vedrà come una originale fantasiosa narrazione chi invece avvertirà le implicazioni più universali, carsiche e al contempo intimissime. Comunque sia ognuno potrà porsi in singolare ascolto poiché esse sono evocatrici di emozione e di mistero. Complessivamente ci ritroviamo ad ammirare ben 110 opere che potremmo definire “immagini-chiave”, inesauribili e moltiplicatrici di significati archetipali che entrano in risonanza con la nostra psiche più profonda. Una sorta di giaculatorie che diventano proiezioni di messaggi per lo spirito aprendo il varco alle vie della contemplazione. Verticalizziamo la nostra attenzione allo stile dei contemplativi per sollevare l’orizzonte della nostra visione. L’artista si radica sempre a fondo nel proprio ponte spirituale per incarnarsi nella propria opera, differentemente. Onorio Bravi spicca il volo con il suo personalissimo e inconfondibile linguaggio. Perché è l’istante creativo l’unico e incessabile rapimento. Marcel Proust sosteneva infatti che «lo stile non è una questione di tecnica ma di visione». In questi arcani io ritrovo la mappa delle tre vie: della morale, della meditazione e dell’amore. Tutto immerso nel silenzio che qui assume il suo reale valore di tesaurizzazione di potenze. La bellezza che si incarna nelle forme profondamente contiene una parte nascosta dove si concentra una attrattiva poetica, nucleo di energia.
Con questa mostra Onorio Bravi ripercorre l’ordine gerarchico di quell’inesauribile liber mundi che sono i tarocchi. Sappiamo che spesso «è ciò che viene considerato improduttivo a diventare necessario» (Aleksander Herzen). Georges Bataille parlava di «economia di festa» là dove il valore dell’uomo «si lega agli esiti più belli dell’arte nella poesia, al pieno rigoglio della vita umana». Il nostro artista sembra attraversare pittoricamente queste simbologie antiche per restituirci i valori più autentici del vivere umano. Heidegger si interrogava sull’essenza della verità. Anche i tarocchi di Onorio Bravi, per cerchi concentrici, ci riportano a esperire questa ricerca pur senza esibire “parole ragionevoli” sulla loro sostanza. Consapevoli che ogni conoscenza, così come ogni verità, conserva sempre un certo grado di ambiguità. Anche Magritte ha riflettuto per una vita sul concetto di verità e di essenza della verità ma il modo di cogliere queste “essenze” è comunque sempre diversamente vero per ognuno di noi. Così, anche la peculiarità della differenza diviene un aspetto essenziale del saper vedere o non vedere una cosa. Perché non esiste mai un “sapere sicuro”.
Il testo di Andrea Vitali, da storico e tarologo, pone una sorta di “distanza”: allontana nel tempo l’oggetto, la cosa - i tarocchi - per permetterne l’analisi. Così, svelandoli pienamente.Si tratta di soddisfare un orientamento storiografico, una sorta di retrospettiva per legittimare la nostra comprensione, per radicarla in noi.Questo sguardo attuato per “riguadagnare una distanza” ci riconferma la profondità dell’oggetto indagato, sancendone e concentrandone l’autenticità, dunque la sua “verità”.
L’arte talvolta sembra fuggire dal presente per superarlo. Tornando nel passato ritrova le sue radici, dunque «lo spazio per la rincorsa necessaria per saltare oltre il nostro presente, e considerarlo cioè nell’unico modo in cui ogni presente in quanto tale merita di essere considerato: in modo da essere superato. Il vero ritorno alla storia è l’inizio decisivo di un autentico avvenire» Martin Heidegger, L’essenza della verità). Perché al concetto di verità si lega la comprensione e con essa la “svelatezza”. L’essenza di una cosa è ciò che è racchiuso fra un inizio e una fine, in modo breve e concluso, proprio come accade fra l’arcano “0”, Il Folle, e il “XXI”, Il Mondo. Trasposizioni e inversioni di percorso.
Allora l’arte svela, vela, dis-vela o ri-vela? Direi che in essa e con essa si attua il “rapimento del vero” in quanto l’arte si colloca come il “testimone” della ricerca di un qualcosa che vorrebbe svelarsi. Perché la verità dell’arte «corre al di fuori dei sentieri abituali degli uomini», come sosteneva Parmenide relativamente alla verità del filosofare. Perché ogni opera d’arte vede la sua luce e possiede una sua “aura” inconfondibile. Scrive Massimo Cacciari che parlare di “aura” di un’opera significa comprendere che essa «riserva sempre qualcosa che eccede ogni spiegazione, che la sua essenza non è mai disvelabile, che dobbiamo avere sempre ancora tempo per attendervi». Perché l’artista cede di fatto la parola all’opera stessa essendo il tramite del suo dire.
L’opera d’arte è dunque un concentrato di enigmi e di presagi, perché ci costringe a fare ritorno all’essenza di noi stessi. Questi arcani maggiori sono eterotopie, luoghi altri, spazio di demarcazioni e confinamenti. Forse, parlare troppo di una cosa potrebbe opacizzarne la sua “aura”. Ma non possiamo staccarci da queste magiche visioni del desiderio. «L’artista conosce la vita prima del suo inizio» ha scritto Louis Kahn.
Così tutte queste opere di Onorio Bravi non sono altro che viaggi onirici, racconti combinatori, un’andata e ritorno sincretico di vita: ribadita, vissuta, centellinata, assaporata perché «il senso non è mai il tema del comprendere» (M. Heidegger). Per una loro piena, emotiva comprensione dobbiamo porci, allora, in vigile ascolto immaginativo e farci più che mai “intuitivi”. Purtroppo, anche il miglior tentativo di descrivere e dimostrare, nella sua riduzione dal pensiero alla parola scritta, fallisce inesorabilmente essendo pur sempre limitato e riduttivo. Ogni interpretazione, infatti, registra un atteggiamento sempre ipotetico e parziale. Solo l’opera d’arte conserva un nocciolo di sé indescrivibile, indimostrabile e sempre mutevole come una luce dell’anima che, improvvisa, si accende. Ed è qui racchiusa tutta la sua misteriosa Bellezza. Cristina Campo ha scritto che «è proprio la pura concretezza delle cose a crearsi da sé, come nella vera pittura, quella patina di mistero e di incanto che allontana il presente e avvicina il passato, in limpide e forti prospettive».
Ha scritto Claudio Widmann, sodale amico di Andrea Vitali, che «Sull’Amore [...] trionfa Pudicizia che lo controlla; sull’Io trionfa la Morte, che lo annienta; sulla Morte trionfa la Fama, che è in grado di sopravviverle e sulla Fama trionfa il Tempo, che finisce con il dissolverla; poi, perfino sul Tempo, trionferà l’Eternità».
Abbandoniamoci, allora, a queste composite e allegoriche icone - labirintiche storie per viaggiatori ermetici - per sentire quale risveglio attueranno in noi, nel profondo, come si trattasse di un gioco innocente.